martedì 24 novembre 2015

Racconto di bulllismo

Tempo fa ho scritto un racconto di cronaca sugli atti di bullismo che oggi vi voglio riproporre, perché ritengo non si debba smettere di parlarne. Per questa pubblicazione ho avuto l'onore di essere stata citata dalla professoressa di psicologia dell'università e-campus Giulia Cavalli



Mi chiamo M. e ho 15 anni: non so perché, non so cosa io abbia fatto, ma da due anni vengo perseguitato a scuola da un gruppetto di 6 ragazzi. Uno si trova nella mia stessa classe, ma gli altri sono tutti più grandi di me.
Ho cercato di reagire e mi hanno picchiato; allora ho pensato di non reagire, ed è stato  anche peggio, perché hanno cominciato a picchiarmi e ad offendermi, con insulti e scherzi per qualsiasi osa.
Non ricordo esattamente come sia cominciata: da pochissimo avevo cominciato il liceo, dove portavo da casa un panino per la ricreazione. Inutile dire che cominciarono a rovistare nella cartella per prendermi la mia merenda, ma non per mangiarla, solo per giocarci, solo per farmi dispetto, quasi come dei gatti con le loro prede. Ma loro non sono gatti: e giocare fino a disintegrare qualcosa non è nel loro istinto.
Dissi a mia madre che preferivo comprarmi direttamente la merenda a scuola: dolce come sempre, non se la prese, ma cominciò a darmi una paghetta per le mie piccole necessità. Nel momento in cui non trovarono più niente nella mia cartella, si infuriarono. Pretesero i miei soldi. Io non ne avevo moltissimi, mi servivano solo per una merendina a scuola per tutta la settimana: davo comunque loro tutto ciò che avevo, proprio per essere lasciato in pace. Ma quando non avevo soldi da dare iniziarono a picchiarmi innervositi.
Per i professori che sembravano non accorgersi di niente, sembrava quasi un innocente gioco fra ragazzi. Il fatto che venissero persone dalle altre classi per “divertirsi” con  me, non interessava loro assolutamente. Gli altri miei compagni di classe avrebbero voluto reagire, ma erano terrorizzati che quegli altri se la potessero prendere anche con loro. Così lasciavano fare, guardandomi con compatimento.
Io avevo paura e non osavo confidarmi con nessuno. Avevo paura di parlarne ai miei: perché tremavo al pensiero che, dopo, quelli avrebbero potuto vendicarsi.
Tornavo a casa pesto, spesso col sangue dal naso, ma inventavo sempre goffe e patetiche scuse (caduto dalle scale, sbattuto ad una porta) su come mi fossi fatto male. Scuse a cui, naturalmente, i miei non credevano.
Ero triste e solo: il mio carattere cominciò a cambiare e mi vennero strani tic nervosi, che ancora di più erano oggetto di scherno da parte di quei buli.
Un giorno in cui tornai a casa conciato peggio del solito, mia madre mi costrinse a denunciare tutti quei ragazzi, facendo nomi e cognomi.
Ovviamente ho cambiato città, scuola, mondo, amici… Ma almeno sto trovando un minimo di serenità.
Questo è un racconto inventato: ma tratto dalle tristi e verissime vicende di cronaca.

Roberta Jannetti

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